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Esfuerzo compartido – Viverlo insieme

È il motto scelto quest’anno per la Giornata Mondiale dell’Alzheimer che cade ogni 21 settembre. Quest’anno allargata in realtà a tutto settembre, primo Mese Mondiale, con l’obiettivo di sensibilizzare la comunità globale ad una maggiore accoglienza di questi malati.  Mi sembra che la versione italiana e quella spagnola del motto, diverse per le esigenze delle due lingue, si completino a vicenda. A me queste parole suscitano tanti ricordi, non troppo lontani nel tempo: 6 anni di lotta, di affetto, di amore «per» e «con» la persona che mi ha dato la vita. È spiazzante la demenza, è qualcosa che non riesci ad afferrare e quindi non capisci come affrontarla, cosa è bene fare per chi ne è colpito. A volte ti fa gridare dalla disperazione… Per questo è ben scelta la parola «esfuerzo», è uno sforzo immane imparare a coabitare con questa malattia che giorno dopo giorno ti può riservare una nuova sorpresa. Ma si può condividerlo con tanti che si trovano sullo stesso fronte, in qualità di parenti, amici, medici, associazioni…

Mi è stato molto utile leggere, e poi cercare di applicare nelle situazioni quotidiane, i consigli ai familiari che avevo trovato nel sito italiano dedicato all’Alzheimer; ho visto che ci sono analoghi in spagnolo di varie associazioni e fondazioni. Ho imparato i piccoli «trucchi» per accompagnare la persona malata nelle sue necessità senza farle pesare la sua confusione, senza umiliarla (meglio fare come se tutto fosse normale, anche di fronte a un comportamento strano), a parlare in sua presenza come se capisse sempre tutto… Non è facile, ma è possibile. Può arrivare lo scoraggiamento, ma non bisogna fermarsi.  Ciò che tante volte mi dava la forza di ripartire era chiedermi come vorrei essere trattata io se mi capitasse questa malattia.

So che la casistica è infinita e lo sviluppo della malattia è diverso per ciascuno, pur seguendo un decorso ormai prevedibile. Tuttavia devo dire che fino all’ultimo respiro non mi ha abbandonato la certezza che mia madre in qualche modo capiva e avvertiva la mia presenza, le attenzioni che cercavo di darle. In quei sei anni mi sono fatta questa convinzione: non è che i malati di demenza «non capiscono», siamo noi che dobbiamo imparare a «parlare» come loro. Capiscono il linguaggio di un gesto, il tono di voce più delle parole in sé, capiscono le emozioni che suscita una musica… È questione di cambiare prospettiva, allora possiamo davvero accompagnarli.

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