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Quale “Ubuntu” per l’Europa?

Europa, dove vai? Oltre ad essere il titolo di libri e saggi sulla questione europea, è una domanda che – credo – in ogni cittadino europeo si fa sempre più acuta in questo “momento” (!) chiamato crisi. Le mie percezioni partono senz’altro dal clima che respiro qui in Spagna dove vivo, ma penso siano comuni o almeno affini a molte altre nazioni. Siamo in tempi di emergenza acuta, è vero, e chi governa deve prendere decisioni dure, impopolari, sicuramente perfettibili, ma possibile, dico, possibile che ogni decisione presa da un governo, prima ancora di essere analizzata e approfondita, venga attaccata dalle opposizioni, demonizzata, sviata, complice un’informazione troppo miope e/o schierata? Non sento in questi interventi nemmeno un grammo di interesse a difendere almeno la propria nazione, figurarsi un continente! In queste ore c’è chi parla di salvare l’euro e l’Europa e spero che vinca, dove c’è, questa volontà e questa buona fede. Sarebbe già qualcosa. Ma quel progetto della “casa comune” sognato col crollo dei muri, dov’è finito? Hanno dunque ragione coloro che negano l’esistenza di un “demos” europeo, che non c’è e non potrà mai esistere? Vogliamo dunque arrenderci?

Al formarsi della nuova Repubblica Sudafricana e in seguito del cosiddetto Rinascimento Africano, cominciò a correre il termine “Ubuntu”, parola che riassume tutta una filosofía, una condotta etica incentrata sulla lealtà della persona e dei rapporti interpersonali. Per tradurre questa sola parola, noi occidentali abbiamo bisogno di frasi complete, ad esempio: “umanità verso gli altri”, “sono perché gli altri sono” “una persona è tale in ragione degli altri”, “sono quello che sono per quello che tutti insieme siamo”…

La definizione forse più completa è quella del reverendo Desmond Tutu (sudafricano, premio Nobel per la pace 1984): “Una persona con ubuntu è aperta e disponibile agli altri, sostiene gli altri, non si sente minacciata se altri sono capaci e validi in qualcosa, perché sicura di sé in quanto cosciente di appartenere a una totalità; è una persona che si sente diminuire quando altri sono umiliati o disprezzati, quando altri sono torturati o oppressi…”

Questi princípi non ci richiamano forse altri che in Europa abbiamo voluto dimenticare e magari seppellire? Non echeggiano forse la parola “comunione”, la “Koinonía” proclamata da san Paolo? La crisi dell’Europa, sono in molti a sostenerlo, di differenti correnti di pensiero, non è solo finanziaria, è prima di tutto morale. Ci mancano i motivi e le linee di condotta per stare assieme. Vedeva lontano chi ammoniva che a prescindere dalle sue radici cristiane l’Europa non poteva trovare coesione. Occorre ricominciare a cercarla questa coesione, disseppellirla dalle macerie del relativismo e di altri mali típicamente occidentali. Occorre continuare a credere qualcosa che può sembrare impossibile; lo esprime molto bene Federico Mayor Zaragoza, già direttore dell’Unesco e presidente della Fundación para una Cultura de Paz: “Dobbiamo osare di cercare il come, il perché e il ‘per che cosa’ siamo d’accordo. In questo modo potremo insieme cercare soluzioni alternative e nuovi modi di gestire le sfide del mondo. Essere diversi è la nostra ricchezza, agire uniti sarà la nostra forza”.

Ecco, è solo qualche pensiero, senza pretesa di analisi, di una come me che, nonostante tutto, si sente ed è orgogliosa di essere europea.

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