Era pittore, Werner, e veniva nel negozio di mio padre, fotografo. Una persona che a me, ragazzina, piaceva ascoltare, soprattutto perché nella sua vita già abbastanza lunga, aveva vissuto intensamente e avventurosamente. Era tedesco – anzi lui con un po’ di autoironia si definiva prussiano – ma aveva lasciato il suo paese quando il nazismo iniziava l’ascesa e si era trasferito in sudamerica. Non era stato capace di tornare in Germania e si era stabilito sul Lago Maggiore, abbastanza al nord ma pur sempre in un paese del sud… Di tanto in tanto, in una galleria d’arte a pochi metri dal nostro negozio, venivano esposti i suoi quadri.
Un giorno venne da noi e cominciò a raccontare con entusiasmo quanto gli era appena successo; tra i quadri ce n’era uno a lui molto caro, a cui aveva dato nome «Das Licht», la luce: sembrava un mosaico, attorno ad un’unica tessera bianca centrale, centinaia di tessere coi colori dell’iride… Werner aveva visto entrare un bambino di 8-9 anni e si era messo ad osservarlo; ad un certo punto il bambino si era fermato davanti al quadro-mosaico e non staccava lo sguardo. Werner non aveva resistito e si era avvicinato: «A che cosa ti fa pensare?» Il bambino si era concentrato alcuni secondi, poi la risposta: «Alla luce!» Werner se l’era abbracciato, commosso.
Che un bambino avesse capito l’intenzione e il messaggio del pittore era il più gran regalo che Werner avrebbe potuto ricevere quel giorno.
Andai a vedere il quadro. Mi piacque e mi colpì quell’unica tesserina bianca al centro, senza la quale il quadro non avrebbe avuto senso; l’occhio andava lì, all’essenziale attorno al quale tutto ruotava, con mille sfumature, belle e importanti, ma secondarie. Un punto focale, luminoso, che dà vita a tutto il resto, che da lì parte e lì ritorna. Un bambino aveva colto nel segno.