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A la madre de Jihadi John, a la de James Foley… y a todas las madres

‘Jihadi John’ desde hace unos días tiene un nombre y un rostro.  Es el rostro que resume todo el terror que el ISIS quiere infundir al Occidente  “infiel”.  Tiene las características de la bellaquería de quien mata a sangre fría  y ferozmente a quien se le cruza en su camino  por enemistad o por casualidad, es un ejército sin cuartel  que ha hecho de una deformación del Islam una bandera. Mientras nos enterábamos que el  degollador, el verdugo más  perseguido en el mundo, se llama Mohammed Emwazi, sabíamos también que su madre lo había reconocido inmediatamente por su voz en el primer video – shock del EI, sintiéndolo pronunciar la condena a muerte de James Foley, el periodista americano degollado el 19 de agosto pasado. “Este en mi hijo Mohammed”,  gritó su madre mientras la sobrecogía una crisis de terror.

No sabemos nada más. Sin embargo no es difícil imaginar el dolor y la desesperación de una madre – da igual la cultura de la que provenga – que descubre de haber dado a luz un monstruo.  Es como si le anunciaran la muerte de un hijo, la más terrible de las noticias, porque es la aniquilación de todo signo de humanidad y civilización que caracteriza al ser humano y lo hace digno de tal nombre.

No sé lo que hará pensado Diane Foley, la madre de James, pero si sabemos que después de conocerse la identidad de Jihadi John, ha declarado al ‘The Times’: “Como madre, lo perdono”. Palabras de una fuerza trascendente, de frente a las cuales sería mezquino opinar y discutir, se pueden solo acoger en signo de respeto.

Dos madres, dos hijos muertos, si muertos los dos, porque Jihadi John ha muerto en vida.

Diane Foley ha dado vida a una fundación que lleva el nombre del hijo para apoyar a periodistas que se desplazan a zona de conflictos, un modo para mantener vivo su recuerdo y difundir los valores en los que él creía.

¿Y la madre de Mohammed?  No sé si algún día sabremos algo de ella, quizás no sabremos nunca nada. Sin embargo estoy segura de una cosa: una madre es siempre una madre, y no deja jamás de amar a su hijo, aunque esté lejos, aunque sea malvado, aunque sea un terrorista… en la secreta e irreducible esperanza que un día pueda dar un paso atrás. Espero  que esta esperanza no abandone nunca a la madre de Jihadi John y que tampoco abandone nunca a las madres de las tres chicas huidas del Reino Unido para alistarse en el EI, ni a la madre del policía venezolano que mató a un chico de 14 años  que no había cometido ningún reato, ni siquiera a las madres de esos que trafican con seres humanos….

Pienso que detrás de cada persona, hasta la más cruel y perversa, hay una madre y que su presencia, su palabra o tan solo su recuerdo puede influir en su vida.

Cada  mujer, sea que haya generado o no físicamente  a un hijo, tiene en su DNA, el ser “madre”, una maternidad plena que exterioriza, si quiere y si cree en ella, no solo en el ámbito familiar, sino también en el laboral, en el social o político… una contribución a la conciliación, al diálogo, a la inclusión, al encuentro. Una aportación de futuro, que nosotras mujeres podemos dar en este mundo demasiado confundido y preso de la locura. No dejemos de hacerlo.

Alla madre di Jihadi John, a quella di James Foley… e a tutte le madri

‘Jihadi John’ da qualche giorno ha un nome e un volto. È il volto che riassume tutto il terrore che l’ISIS vuole incutere all’Occidente “infedele”. Ha le fattezze della vigliaccheria di chi uccide a sangue freddo e con ferocia inumana chiunque vada a cozzare  -per convinzione o anche solo per pura casualità – contro un esercito senza quartiere che ha fatto di una deformazione dell’Islam la propria bandiera.

Mentre venivamo a sapere che il tagliagole, il boia più ricercato nel mondo si chiama Mohammed Emwazi, leggevamo anche che sua madre lo aveva riconosciuto subito dalla voce, nel primo video-shock dell’ISIS, sentendolo pronunciare la condanna a morte di James Foley, il giornalista americano decapitato poi il 19 agosto scorso. “Questo è mio figlio, Mohammed”, avrebbe urlato la donna prima di cadere preda di una crisi di terrore.

Non sappiamo di più. Ma non è certo difficile immaginare lo strazio e la disperazione di una madre  – a qualunque cultura appartenga – di fronte alla scoperta di aver messo al mondo un mostro. È come se le avessero annuciato la morte di suo figlio, la più terribile, perché è l’azzeramento di qualunque segno di umanità e di civiltà che caratterizza l’essere umano e lo rende degno di tale nome.

Non so cosa abbia pensato Diane Foley, la madre di James, ma sta di fatto che subito dopo la noticia sull’identità di Jihadi John, ha dichiarato a ‘The Times’: “Come madre, lo perdono”. Parole di una forza trascendente, di fronte alle quali sarebbe meschino opinare e discutere, c’è solo da inchinarsi in segno di rispetto.

Due madri, due figli morti, sì morti entrambi, perché Jihadi John è morto anche da vivo.

Diane Foley ha dato vita a una fondazione che porta il nome del figlio per appoggiare i giornalisti che vanno in zone di conflitto, un modo per mantenerne vivo il ricordo e diffondere i valori in cui credeva.

E la madre di Mohammed?  Non so se e quanto sapremo ancora di lei, probabilmente poco o forse nulla. Ma sono certa di una cosa: una madre resta sempre una madre, e non cessa di amare un figlio, anche se lontano, anche se cattivo, anche se terrorista… nella segreta irriducibile speranza che un giorno possa tornare indietro. Mi auguro che questa speranza non abbandoni mai la madre di Jihadi John. E nemmeno abbandoni le madri delle tre ragazze fuggite dal Regno Unito per aggiungersi all’ISIS, nemmeno la madre del poliziotto venezuelano che ha ucciso in una manifestazione un ragazzo di 14 anni che non aveva commesso nessun reato, nemmeno le  madri dei trafficanti di esseri umani…

Penso che dietro ad ogni persona, anche la più malvagia e perversa,  c’è una madre e che la sua presenza, la sua parola o anche solo il suo ricordo può influenzare la vita di una persona.

Ogni donna, sia che abbia generato o no físicamente dei figli, ha nel suo DNA l’essere “madre”, una ‘maternità a tutto tondo’ che esteriorizza, se vuole e se ci crede, non solo nell’ambito familiare, ma in quello lavorativo, sociale, político… un contributo di conciliazione, di dialogo, di apertura, di inclusione, di incontro. Un contributo di futuro che noi donne possiamo dare in questo mondo troppo spesso in preda alla pazzia. Non tiriamoci indietro.

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